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Giacinto Di Pietrantonio
interviste
14 Gennaio 2025
Curatori
Noi italiani siamo afflitti dalla sindrome della vittima
Storico dell’arte, critico e curatore dipendente dall’arte
Quali sono, nella sua esperienza, gli artisti italiani contemporanei (in vita) che hanno raggiunto maggiore visibilità all’estero e grazie a quali fattori (per es. gallerie, biennali, mostre, curatori, ecc.)?
Immagino si faccia riferimento ad artisti che si sono affermati a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso, dopo il successo mondiale dell’Arte Povera, che oggi sta vivendo una nuova stagione di successi e consolidamento, e della Transavanguardia che ha occupato la scena mondiale per gran parte degli anni ‘80, ma da tempo in stand-by, in attesa di un suo recupero nei prossimi anni. Se così è, la risposta curriculare ci dice: Vanessa Beecroft, Maurizio Cattelan, Francesco Vezzoli, Roberto Cuoghi, Paola Pivi, Monica Bonvicini. Poi in questa lista vanno inseriti anche artisti stranieri che hanno scelto l’Italia come seconda patria; pensiamo all’artista albanese Adrian Paci, o, in parte, al kosovaro Sislej Xhafa che ha raggiunto la sua visibilità quando viveva in Italia, tra anni ‘90 e 2000. Entrambi si sono affermati senza avere curatori e/o gallerie potenti alle spalle o mostre in musei italiani in grado di avvalorare la loro crescita internazionale. Diciamo che è il lavoro a parlare per primo e, dunque, il sistema dell’arte italiano (gallerie, biennali, mostre, curatori ecc.) c’entra fino a un certo punto. Dalla fine degli anni Ottanta, il mondo si è globalizzato e, dunque, allargato e, se fino ad allora la partita si giocava essenzialmente tra Europa e America e, quindi, quando si faceva una mostra come la Biennale si sceglieva tra un centinaio di artisti, da allora sono entrati in gioco artisti dell’Europa dell’Est, Asia, Africa e così via. Dunque oggi bisogna scegliere tra minimo 1.000 per una mostra che, pur crescendo nel numero di partecipanti, alla fine arriva ad ospitarne un massimo di 200 nelle grandi manifestazioni. Da un lato è una questione quantitativa, dall’altra una questione culturale e, dati i temi e i trend che si privilegiano dagli anni ‘90 in avanti (come ad esempio quelli razziali, ecologici, di genere e multiculturali), l’interesse si è spostato su paesi fino ad allora non ancora conosciuti. L’Italia, dopo gli anni ‘80, non è più tra questi, non perché non ci siano bravi artisti, ma perché ha, in generale, poco da offrire a queste tematiche. In questo ha influito anche il passaggio a una generazione interessata ad altro.
Curatori come Harald Szeemann, Jan Hoet, Jean-Christophe Ammann, Rudi Fuchs, o direttori di riviste, come Catherine Millet e tanti altri della loro generazione, erano e sono persone che hanno in parte studiato in Italia con studi di storia dell’arte, allora concentrati soprattutto sull’arte del passato, il che rendeva quasi obbligatorio venire in Italia. Avere delle borse di studio per soggiornare nel nostro paese, considerato il paese dell’arte, era molto in uso. Difatti, quasi tutti di quella generazione parlano anche la nostra lingua.
Ricordo benissimo cosa mi disse in italiano, nel 1981, l’allora gallerista tedesco Paul Maenz, uno dei più potenti a quei tempi: “Noi non possiamo fare a meno di venire in Italia a vedere cosa fanno gli artisti, perché l’Italia è il Paese dell’arte.”. Per i curatori a seguire non è stato più necessario aver studiato arte o storia dell’arte. Ad esempio, Hans Ulrich Obrist, curatore tra i più influenti dagli anni Novanta in avanti, ha fatto studi di economia, stessa cosa per Nicolas Bourriaud che ha fatto studi di giornalismo. Quindi i riferimenti per leggere l’arte sono diversi e l’Italia, da questa diversa prospettiva, risulta loro poco interessante. Il clima è cambiato. A dimostrazione di ciò sta il fatto che, seppur gli artisti sopracitati abbiano un curriculum internazionale di grande rispetto e siano stati invitati in varie biennali italiane ed estere e a mostre internazionali, sia collettive sia personali, nessuno di loro è mai stato ancora invitato a partecipare a documenta Kassel, la manifestazione considerata da molti la più importante al mondo.
L’ultima volta che l’Italia ha interessato il mondo della contemporaneità su larga scala è stato negli anni Ottanta con la Transavanguardia. Questo movimento non è stato un fenomeno isolato e studiato a tavolino, come in molti, solo in Italia, continuano a pensare, ma qualcosa che è stato parte di un mutamento d’epoca chiamato Postmoderno, in cui l’Italia ha avuto un ruolo centrale anche con l’architettura, il design, la moda e il cinema, vincendo oltre a Palme d’oro anche due Oscar con Tornatore e Salvatores, o con il calcio, con la vittoria del campionato del mondo. Se non si parte da qui non si capisce il perché oggi l’Italia dell’arte contemporanea sia ai margini di una rivoluzione globale. La questione è che la produzione degli artisti italiani è interessante soprattutto per noi italiani. Mi spiego meglio citando alcune situazioni italiane ed estere in cui mi sono trovato a partecipare. Sono stato, ad esempio, con Chiara Bertola, curatore del Premio Furla per 15 anni, in cui i giovani artisti finalisti venivano notati da critici, curatori, artisti, direttori di museo sia italiani che stranieri. Da questa esperienza è emerso come gli artisti che più piacevano agli italiani erano quelli che meno piacevano agli stranieri e anche quando questi manifestavano il loro interesse, si capiva essere un interesse di circostanza. Difatti, quasi mai critici, curatori, direttori di museo invitavano qualcuno degli artisti esaminati. Non solo non li invitavano, ma non si stabiliva nessun legame culturale, non entravano a far parte del loro orizzonte artistico culturale.
Altro esempio è la mia partecipazione al Premio Pinchuk a Kiev, in Ucraina, nel 2014. Si tratta di un premio internazionale in cui vengono selezionati, su un migliaio di proposte, 14 artisti per una mostra collettiva che ha luogo durante la Biennale di Venezia più una personale al vincitore. La giuria è composta da diversi critici e curatori provenienti da varie parti del mondo. Io ero l’unico italiano e mi sono sentito in dovere di portare tra i 14 finalisti almeno un artista connazionale. Lottando non poco sono riuscito a farne passare uno, tuttavia non per il lavoro in sé che, pur essendo molto interessante, non risultava esserlo per gli altri giurati, così come non interessava loro il lavoro degli altri italiani in lizza. Ho scelto, invece, di fare leva sulla carriera dell’artista, appoggiandomi al fatto che era stata scelta, in altre occasioni, sia da Massimiliano Gioni per la Biennale di Venezia che da Carolyn Christov-Bakargiev per documenta Kassel, sottintendendo che se non l’avessero fatto passare avrebbero fatto un torto, non tanto a me, quanto a Gioni e Bakargiev. Se non ci fossi stato io non sarebbe passato nessun italiano. La realtà è che noi italiani non veniamo più considerati all’estero e, quando a volte lo siamo, si scatena il tiro a segno sulla prescelta o sul prescelto, da parte di noi stessi italiani, abilissimi, come siamo, a farci del male da soli. Questo non giova, perché gli stranieri per prima cosa guardano cosa diciamo noi dei nostri artisti. Pertanto, se siamo già noi a parlarne male, o a non parlarne affatto, questi, assumendo tali informazioni, agiscono di conseguenza. Ciò lo vediamo anche dalle riviste d’arte italiane che hanno una visibilità internazionale come, ad esempio, Flash Art International e Mousse che non parlano bene o male dei nostri artisti, ma che, semplicemente, non se ne occupano quasi mai. Non sto dicendo che siano obbligate a farlo, ma che l’assenza di artisti italiani da quelle testate, lette in tutto il mondo, faccia sì che chi le legge fuori dall’Italia, non trovando pubblicati artisti italiani deduca che non ce ne siano.
Per non parlare della Biennale Arte di Venezia, dove il Padiglione italiano è praticamente inesistente, in quanto ci si è ostinati, fino a qualche edizione fa, a presentare dei padiglioni con tanti artisti, dove la troppa presenza di autori finisce per disorientare gli stranieri che, non a caso, nei loro padiglioni presentano da sempre uno o due artisti. Questo in quanto il mondo dell’arte “che conta” circola quasi tutto nella settimana dell’inaugurazione, e quindi finisce per vedere tutto di fretta. Avere due tre artisti massimo nel padiglione aiuta a centrare l’obiettivo. L’affollamento è sinonimo di non scelta da parte nostra. Infatti, se si chiede a dieci curatori italiani di fare dieci nomi di artisti emergenti, possiamo essere certi che solo un paio, forse, finiranno per essere condivisi, gli altri otto nomi saranno, per ognuno, diversi. Quindi, quando uno straniero sente più persone e ognuna di queste gli nomina dei nomi diversi, questo finisce per non raccapezzarsi più e concludere che non ci sono artisti interessanti.
Sempre in relazione alla Biennale sussiste un'ulteriore questione, ovvero che il nostro paese non si impone a livello di richieste al direttore. Ciò non vuol dire richiedere che siano invitati a tutti i costi degli artisti italiani, ma che almeno siano presi in visione ed esaminati, per poi decidere se invitarli o meno. Ad esempio, quando nel 2015 viene nominato Okwui Enwezor, un bravissimo curatore, questi non è andato a visitare nessuno studio di artisti italiani, ma ne ha selezionati sulla carta due, morti e già storicizzati da tempo, Fabio Mauri e Pino Pascali, e la terza, Monica Bonvicini, che da oltre 30 anni vive tra Berlino e Stati Uniti dove ha costruito tutta la sua carriera e che già all’epoca era un’artista molto affermata. Se Enwezor si è comportato in questo modo è perché era convinto che in Italia non ci fossero artisti interessanti, convinzione diffusa nel suo entourage internazionale. E le cose non sono cambiate oggi, 2024, dove Adriano Pedrosa direttore della corrente Biennale di Venezia ha invitato solo due giovani artiste italiane Giulia Andreani e Alessandra Ferrini, poi due artisti morti, Filippo De Pisis e Nedda Guidi. E, ironia della sorte, Anna Maria Maiolino di origine italiana, ma che non viene percepita come tale, ma brasiliana e ancor più signficativamente la coppia Claire Fontaine (Fulvia Carnevale e Jamer Thornhill) con l’opera da il titolo alla rassegna Stranieri Ovunque, anch’essi non percepiti come italiani almeno in parte.
Rispetto poi al Padiglione italiano della Biennale 2015 , ma potrebbe essere il caso di qualunque altra edizione, come confermato dall’invito a Massimo Bartolini, appena uscita la notizia è iniziato il linciaggio preventivo sulla mostra che, tuttavia, ancora non c'era. Ma ancor più grave, ripeto, è stato il fatto che il direttore della Biennale, Okwui Enwezor, e oggi Pedrosa, non abbiano sentito il dovere, almeno per salvare le apparenze, di farsi un giro per alcuni studi di artisti italiani e, poi, decidere se invitarne qualcuno o meno. Questo è stato possibile in quanto nessuno, né il Presidente di allora Baratta né quello fino al 2024 Roberto Cicutto, né la stampa italiana, specializzata e generalista, gli chiede conto. Nessuno ha detto: “Scusi, perché non va a vedere gli studi degli artisti italiani e poi decide se ce ne sono di interessanti da invitare, visto che le abbiamo messo in mano la più prestigiosa biennale mondiale, con un budget di una ventina di milioni di euro?”. Ai tempi segnalai questa cosa, ma cadde nel vuoto. Addirittura alcune riviste mi intervistarono a proposito del Padiglione italiano, non appena si seppe la notizia del curatore e degli artisti. A queste interviste risposi che non avevo niente da dire perché il Padiglione avrebbe aperto l’anno successivo e, quindi, non potevo esprimermi su una mostra che non c’era. Colsi però l’occasione per dire quanto ho detto sulla questione del direttore, intervento che non venne pubblicato, come se questo non fosse il vero problema. A Documenta, di cui Enwezor ha curato l’edizione nel 2002 (una delle migliori di sempre), questo non è successo e non sarebbe potuto succedere, perché la Germania gli avrebbe chiesto conto e, difatti, nessuno si è mai sognato di escludere gli artisti tedeschi da Documenta.
Quali sono, nella sua opinione, gli artisti italiani contemporanei che non hanno ancora raggiunto adeguata visibilità per il loro valore artistico e quali sono le cause di questa mancata valorizzazione?
Carla Accardi, Luigi Ontani, Alberto Garutti, Ugo La Pietra, se pensiamo agli storici. Se consideriamo gli artisti dagli anni ‘90 in poi, direi Stefano Arienti, Pietro Roccasalva, Vedovamazzei, Luisa Lambri e altri.
Quali sono, nella sua esperienza, le tappe e gli elementi che favoriscono la carriera internazionale di un artista italiano contemporaneo? E dove il sistema italiano è carente per sostenere l’arte contemporanea italiana sulla scena artistica internazionale?
Forse ho messo tutto nella prima risposta: la questione del sistema è in gran parte un falso problema perché i movimenti che si sono affermati internazionalmente, come Arte Povera e Transavanguardia, sono emersi quando il sistema dell’arte italiano era quasi inesistente e, quel poco che c’era, quasi per nulla strutturato. I movimenti sopracitati, Arte Povera e Transavanguardia, sono emersi in periodi in cui c’erano poche gallerie rispetto a oggi, per non parlare dei musei e simili. Dare la colpa al sistema, come fanno in molti, è un’ingenuità che non ci permette di interrogarci sul lavoro che c'è da fare. Si potrebbe dire che noi italiani siamo afflitti dalla "sindrome della vittima" che ci spinge a dare sempre la colpa agli altri quando qualcosa non va, come accade con i musei, che vengono accusati da sempre di esterofilia. Per smentire tutto questo vorrei riportare dei dati elaborati dall’AMACI (Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani) nel 2012, un’analisi fatta proprio per fugare queste accuse.
È stato fatto un conteggio dal 2003, anno di nascita di AMACI, al 2012 con risultato che, nelle mostre collettive, la presenza degli artisti italiani era di 183 e quella degli stranieri di 333. Per le personali i dati erano di 621 monografiche per gli artisti italiani e 321 per quelli stranieri. Dunque, nel confronto fra Italia e resto del mondo, la presenza degli artisti italiani nei musei italiani era nettamente superiore, anche se la percezione da parte dei più era (e continua a essere) che questi fossero poco, o per nulla, rappresentati. Ora, questo problema della percezione ci segnala che, se si fanno il 70 % di mostre di artisti italiani e il 30% di stranieri ma si ha la percezione opposta, vuol dire che quel 70% non incide. Il lavoro degli italiani è, dunque, percepito come poco interessante rispetto al restante 30% degli stranieri. Insomma, dovremmo interrogarci di più sull’opera (e quando dico opera non parlo solo di opere d’arte ma dell’opera di tutti i settori) più che dare sempre la colpa agli altri. Infatti, il problema non è che non ci siano abbastanza attori del sistema dell'arte, ma che questi non siano abbastanza incisivi e non vengano considerati. I musei, curatori, gallerie, critici italiani ascoltati fuori dall’Italia sono pochissimi e quando lo sono, spesso, non si occupano, o si occupano poco, di sostenere gli artisti italiani. Pensiamo alla mostra “Younger than Jesus”, curata nel 2009 dall’allora direttrice del New Museum Lauren Cornell e dal curatore aggiunto Massimiliano Gioni, oggi direttore dello stesso museo, dedicata ad artisti al di sotto dei 33 anni. Quanti italiani pensate vi fossero in una mostra che contava oltre 50 artisti? Zero. Ancor più quella mostra era affiancata da una pubblicazione che conta anche un elenco di 500 artisti visitati o presi in conderazione in cui figuano solo 2 italiani.
Ciò a supporto di quanto dicevo prima: se l’arte italiana non esiste per noi figuriamoci per gli altri. Ciò avviene anche per le gallerie. Se andiamo a vedere gli artisti italiani presenti nelle nostre gallerie ritenute più importanti, vediamo che quasi nessuno degli artisti rappresentati ha una vera considerazione internazionale. Di conseguenza, anche se i loro galleristi fanno il loro dovere proponendoli a istituzioni, gallerie d'arte, critici e curatori stranieri, questi trovano poco ascolto dall'altra parte, diversamente da quanto accadeva per le gallerie italiane fino a parte degli anni ‘80. Gli anni ‘80 costituiscono uno spartiacque che ha inciso, in parte, sulla situazione in cui l’Italia dell’arte contemporanea si trova oggi. Per la prima volta nella storia dell’arte italiana si è prodotta una cesura tra le generazioni. Se si vanno a vedere le mostre di quegli anni si vede che, con gli artisti della Transavanguardia, si è interrotta quella stretta relazione che c’era stata fino ad allora tra gli artisti. Infatti gli artisti della Transavanguardia esponevano solo con artisti già affermati, sia italiani che stranieri, e non con i più giovani, arrestando, di fatto, quel dialogo necessario per cui la generazione precedente passa il testimone alla successiva. Questo e altro è visibile anche nelle collezioni dei musei italiani d'arte moderna e contemporanea, nei quali non troviamo collezioni in cui leggere la storia dell’arte italiana e la sua continuità fino a oggi. Se, ad esempio, andiamo nei musei europei o americani troviamo rappresentati, in una linea storica nazionale e internazionale, tutte le generazioni fino alle più recenti, per cui, quando uno va a visitare i musei, si fa un’idea della storia dell’arte e della nazione, in relazione sia a se stessa che al resto del mondo. Ciò in Italia non accade, tutto è più sporadico. Per cui gli stranieri, non trovando una continuità museale che garantisce anch’essa la qualità delle opere e degli artisti rappresentati, finiscono per concludere che esse non ci siano.
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