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Luca Bombassei

interviste
Luca Bombassei
PH Jacopo Salvi

30 Luglio 2025

Collezionisti

Essere mecenate oggi: connettere, ascoltare, agire

Architetto, designer e collezionista d’arte contemporanea

Cosa significa essere mecenate nel XXI secolo?
Mi definisco mecenate nel senso più ampio del termine. È una parola che sento mia, che mi veste bene, anche se a volte la trovo un po’ stretta. Non sono solo un collezionista mi considero anche un ricercatore non nel senso curatoriale o accademico, ma nella mia personale e costante sete di conoscenza. Più mi avvicino al mondo dell’arte, più sento il bisogno di approfondire, di capire. Per me, oggi, essere mecenate significa essere aperti a ogni stimolo, a ogni informazione che arriva dall’esterno. È una forma di attenzione continua, per riuscire a cogliere e valorizzare ogni aspetto dell’arte, dal giovane artista emergente all’istituzione, dalla fondazione fino all’ente pubblico. Essere mecenate, oggi, significa anche prendere posizione: accorgersi quando qualcosa non funziona, sollevare la mano e dire 'attenzione', stimolare un confronto, proporre soluzioni. Non si tratta solo di sostenere economicamente – anche se il supporto, specie per i giovani, è fondamentale – ma di vivere l’arte in modo attivo, partecipe, pur non essendo un addetto ai lavori. È un impegno che nasce dalla passione e da un senso di responsabilità culturale.

 

Quindi oggi il mecenate cosa può fare?
Per me, tutto parte dalla conversazione: creare dialoghi, costruire una rete, generare connessioni. Significa dare voce a chi spesso non ce l’ha, offrire uno spazio – che non è necessariamente una mostra – dove potersi raccontare. Può essere una chiacchierata, un incontro informale in cui si ospita un curatore, un direttore di museo, un artista, un giornalista o anche solo un appassionato. Lì, in quel momento, avviene qualcosa: il confronto. Insieme alla tua cerchia – che può cambiare, allargarsi o restringersi di volta in volta – ascolti, partecipi, e proprio così nascono le opportunità. È in queste situazioni che si creano sinergie tra mondi molto diversi, tra persone che magari non si sarebbero mai incontrate. Ecco, credo che oggi il ruolo di un mecenate sia proprio questo: creare connessioni, favorire lo scambio di idee ed esperienze. Se penso ai giovani artisti, tema che abbiamo affrontato nel recente incontro in Triennale, molti di loro non hanno accesso diretto a figure come curatori o direttori. Ma se un curatore, anche solo per caso, ascolta un giovane artista e ne scopre il lavoro, può davvero cambiare tutto. A volte basta una segnalazione per un bando internazionale o l’invito a far parte di un collettivo, italiano o straniero, per aprire strade nuove. E quel momento nasce proprio da un incontro, da una conversazione che qualcuno ha deciso di far accadere. 

 

Che criteri segue nella scelta degli artisti o dei progetti da sostenere?
Parto da un presupposto: non sono un’istituzione, e questo mi dà una libertà che considero un privilegio. Non ho vincoli, non ho perimetri da rispettare, e posso permettermi di scegliere in modo autonomo cosa sostenere. Chi ricopre un ruolo istituzionale – penso ai direttori artistici dei musei, per esempio – spesso lavora con grande competenza, ma inevitabilmente deve muoversi entro certi limiti, dettati dalla posizione che occupa. Io, invece, ho la fortuna di poter essere trasversale, eterogeneo nelle mie scelte, e di seguire anche l’istinto. Sostengo un artista o un’idea non perché rispecchi i miei gusti o si integri perfettamente nella mia collezione – quella è un capitolo a parte, un piacere quasi privato – ma perché mi appassiono alla storia che c’è dietro. E non parlo solo di artisti: mi interessa anche dare voce alle istituzioni, creare occasioni di incontro. 

Ho avuto il piacere di sostenere progetti che vanno dal British Council al Musée d’Orsay, sempre grazie alla proposta di curatori o professionisti intraprendenti che mi hanno coinvolto con idee stimolanti. Proprio perché non devo rispondere a logiche strutturate, posso spaziare in mondi che, a prima vista, non dialogano tra loro, ma che nella mia visione trovano un legame, magari proprio nella loro diversità. C’è poi un lato più personale. Per esempio, mi sono innamorato del lavoro di Ibrahim Mahama, che ho visto in Biennale. Ho voluto conoscerlo meglio, e lui mi ha parlato del suo progetto di fondazione in Ghana e della necessità di raccogliere fondi per realizzarlo – perché alla fine, lo sappiamo, spesso è lì che si gioca tutto. Così, nel cantiere della mia casa in costruzione a Venezia, tra ponteggi e materiali grezzi, abbiamo organizzato un incontro: una lunga conversazione con lui, alcuni curatori africani, giornalisti, collezionisti, presidenti di fondazioni e appassionati. Un pubblico che, forse, non avrebbe avuto altrimenti l’opportunità di conoscere da vicino Mahama e il suo impegno. Quello è stato un momento vero, potente. Ed è in questi gesti che sento il senso profondo del mio ruolo: promuovere, connettere, accendere scintille. È il privilegio della libertà, ed è un compito che sento davvero cucito addosso.

 

Come sostiene gli artisti emergenti oggi, soprattutto quelli della nuova generazione, e quali sono le sfide nel creare opportunità reali per farli conoscere?
Promuovere il lavoro di un artista significa, spesso, portarlo fuori dallo studio e dargli visibilità in contesti più ampi, capaci di valorizzare davvero la sua ricerca. In questi anni ho sostenuto progetti sia nazionali che internazionali, proprio con questo obiettivo: offrire opportunità concrete ad artisti che, altrimenti, non avrebbero avuto accesso a certe reti, certi spazi o interlocutori. Credo che oggi dobbiamo rivolgere lo sguardo in particolare alla nuova generazione di artisti nati dagli anni ’90 in poi, comprendere il loro linguaggio, il modo in cui scelgono di raccontarsi e di raccontare il proprio lavoro. È su quella modalità, spesso ibrida e fluida, che dobbiamo calibrare il nostro sostegno. Certo, anche da parte degli artisti serve una certa apertura. Esiste ancora una forte diffidenza verso la figura del mecenate, forse perché troppo spesso è stata associata a un collezionismo puramente speculativo. Ma la mia idea di mecenatismo è completamente diversa: non si tratta di comprare molte opere per investimento, ma di accompagnare, ascoltare, far emergere. Allo stesso tempo, credo che gli artisti debbano capire come funzionano oggi le dinamiche di visibilità, come si costruiscono le occasioni di incontro.

Chi ha il privilegio di poter studiare o vivere all’estero ha accesso a canali diversi, più diretti. Ma penso soprattutto a chi non ha queste opportunità: sono spesso proprio loro, gli artisti meno esposti, quelli che meritano più attenzione. Perché dietro a un lavoro poco conosciuto può nascondersi una voce potente, un punto di vista originale. E quando si crea il contesto giusto per raccontarsi, quando si apre uno spazio di dialogo autentico, allora può emergere davvero la personalità dell’artista, il significato profondo della sua opera. Perché non sempre il messaggio è immediato – ma attraverso una conversazione, può diventarlo.

 

Come funziona davvero il sostegno ai giovani artisti? Le istituzioni reggono il passo?
Il ruolo delle istituzioni in questo ambito è fondamentale, ma dobbiamo riconoscere che spesso sono le fondazioni private a muoversi con maggiore agilità nel promuovere giovani artisti contemporanei, per mille ragioni che sono sotto gli occhi di tutti. 

Pensiamo, per esempio, al numero crescente di fondazioni nate a Venezia negli ultimi anni: non sempre si tratta solo di una reale opportunità culturale, a volte c’è anche una componente più pragmatica, come ragioni fiscali o una visione un po’ opportunistica legata al portare la propria collezione in città. Detto questo, proprio questo fermento genera dinamiche nuove e, dal mio punto di vista personale, crea occasioni importanti. Non ho una formula precisa per farlo, e per fortuna posso declinare il mio sostegno e il mio impegno in modi sempre diversi, adattandomi alle circostanze e alle esigenze di volta in volta.

 

Come definirebbe oggi lo stato dell’arte contemporanea in Italia?
Preferisco lasciare che a definire lo stato dell’arte in Italia siano coloro che lavorano direttamente in questo ambito, perché hanno una competenza e un’autorità che io non possiedo. Mi sento un po’ in difficoltà a rispondere a questa domanda: io sono semplicemente un fruitore, e la mia visione, per quanto sincera, è inevitabilmente parziale e limitata ai mondi che, con la mia curiosità e il tempo che posso dedicare, riesco a esplorare. Ritengo che chi fa affermazioni o testimonianze in questo campo abbia delle responsabilità precise, e non mi sembra giusto dare definizioni che non mi competono. C’è però un aspetto che mi sembra di cogliere, nel mio percorso quotidiano dal mio punto di osservazione all’interno del sistema-arte: talvolta alcune gallerie italiane appaiono meno presenti di quanto ci si aspetterebbe nel rappresentare gli artisti giovani ed emergenti del nostro Paese. Un impegno che sarebbe auspicabile e che, forse, si scontra ancora con una certa tendenza a guardare con più entusiasmo verso l’estero, a scapito di ciò che abbiamo più vicino. 

 

Quali sono le principali sfide che gli artisti italiani contemporanei devono affrontare?
La sfida principale per i giovani artisti consiste innanzitutto nel farsi conoscere, ma su questo le istituzioni italiane mostrano grandi limiti: sono lente, poco efficienti e spesso faticano a sostenere davvero questi talenti. E purtroppo, come accennato prima, la stessa "assenza" verso i giovani artisti italiani riguarda molte gallerie private. Questo apparente paradosso trova in realtà un contraltare in un certo elitarismo culturale - tutto italiano - che ancora permea le scuole d’arte, e che a sua volta sembra scoraggiare gli artisti stessi dallo ‘sporcarsi le mani’ con il mercato. La formazione, nel nostro Paese, soffre di un accademismo consolidato che privilegia l’aspetto puramente intellettuale dell’arte – contrapponendolo alla ‘commercializzazione’ delle opere. Guardando all’estero, invece, vediamo modelli differenti, in cui aspetto intellettuale e versante professionale (dunque in ultima analisi, monetario) dell’arte convivono senza ipocrisie: gli artisti più giovani possono contare su un supporto concreto, spesso con stipendi statali che permettono loro di dedicarsi completamente al proprio lavoro. In Italia, invece, proprio a causa di questa mentalità obsoleta, fare l’artista non è ancora considerato un vero e proprio mestiere, ma più una passione o un hobby, un privilegio riservato a chi può permettersi, magari grazie a una famiglia benestante, di viaggiare e confrontarsi con altre realtà artistiche. 

Per questo è fondamentale creare opportunità concrete e un sistema strutturato, che oggi manca. Credo che curatori e direttori di musei dovrebbero aprire un dialogo più sincero e ascoltare le reali esigenze degli artisti, lavorando insieme per costruire un supporto solido e duraturo.

 

Quindi l’arte italiana continuerà a soffrire un gap con quella internazionale?
La situazione non si risolverà in tempi brevi, questo è certo, ma qualcosa si sta muovendo. C’è oggi una maggiore attenzione verso l’arte contemporanea, anche se, va detto, la moda e altri settori ne hanno fatto spesso un uso un po’ opportunistico. Tuttavia, se guardiamo agli aspetti positivi, questa visibilità rappresenta comunque un canale prezioso, una vera opportunità – una forma di mecenatismo, insomma. Detto questo, emergono soprattutto quegli artisti che hanno il contatto giusto, o la fortuna di essere notati da un gallerista o un curatore capace, o che semplicemente hanno il coraggio di uscire dal loro studio e farsi conoscere. Mentre altri restano concentrati sul loro lavoro, magari preferendo la tela al video, o mantenendo una distanza dal mondo esterno, rischiano di non farsi vedere e quindi di perdere occasioni importanti.

 

E il sistema delle gallerie, delle fiere e delle fondazioni in Italia cosa fanno per l’arte italiana?

La riduzione dell’IVA al 5% rappresenta per l’arte italiana un vero e proprio passaggio epocale. Questo provvedimento rende molto più semplice la movimentazione delle opere tra Italia e estero, in entrambe le direzioni, e riduce in modo significativo i costi per collezionisti e appassionati che acquistano arte.

Per quanto riguarda le fiere, invece, ammetto che mi stanno appassionando sempre meno, e credo di non essere l’unico. Il format delle fiere d’arte mi sembra ormai obsoleto e necessita di un cambiamento. È importante aprire un confronto su questo tema, ascoltare punti di vista diversi per capire perché oggi si va in fiera. Se un gallerista, ad esempio, ha già venduto tutte le opere prima dell’evento a clienti selezionati – privati o istituzionali – allora che senso ha la fiera stessa? Inoltre, il prezzo di un’opera cambia a seconda della fiera in cui viene venduta: perché l’acquisto di un’opera dovrebbe dipendere dal luogo in cui viene proposta? A chi davvero giova tutto questo? All’artista, al sistema, o a qualcun altro? L’arte è un fattore trainante, uno spettacolo che però deve basarsi su contenuti veri e significativi. Per questo insisto molto sull’importanza dello scambio autentico tra artista e pubblico, che può essere composto da persone molto diverse tra loro. L’essenza sta nella possibilità di raccontare, di dialogare, non nella mera spettacolarizzazione dell’arte.

 

Quali modelli internazionali ritiene più virtuosi o replicabili in Italia?
Prima ho citato il British Council e credo sia importante continuare a farlo come esempio di grande flessibilità e facilità di interlocuzione. Spesso, lavorare con le istituzioni italiane significa affrontare una montagna di ‘carta bollata’, infinite PEC e mille passaggi burocratici per dimostrare che il progetto è legittimo. Dopo la terza PEC, ti viene davvero voglia di mollare tutto. Paradossalmente, tutto questo tempo dedicato alla burocrazia finisce per trasformare un progetto di arte contemporanea in qualcosa che sembra quasi arte moderna, perché in Italia manca la capacità di semplificare e agevolare le cose.

Così capita che molti si rivolgano all’estero, non per esterofilia, ma perché lì il percorso è più snello. Con due telefonate e una bella chiacchierata ti fanno sentire parte di un meraviglioso mondo, un’opportunità reale e un privilegio da poter sostenere. Un esempio lampante è il lavoro con Sonia Boyce, Leone d’Oro alla Biennale del 2022, e il padiglione inglese: è bastato un incontro informale con l’artista, la curatrice e la direttrice del British Council, tutti sullo stesso livello, per far scattare una collaborazione. Forse sembra naïve, ma proprio in questo sta il vero ruolo del mecenate.

 

Come immagina l’evoluzione dell’arte italiana nei prossimi dieci anni?
Non sappiamo cosa accadrà domani mattina, e mi auguro che l’evoluzione possa avvenire in modi diversi e sorprendenti. Tuttavia, non mi sento in grado di fare previsioni sul futuro, e onestamente non voglio nemmeno provarci. Preferisco vivere il presente, approfondire ciò che accade oggi, lasciando a chi è più esperto il compito di immaginare cosa succederà tra dieci anni.

 

Tra collezionista, architetto e mecenate… quale di questi ruoli la rappresenta di più?
Architetto, senza esitazione. È lì che mi sento davvero a casa, nel gesto del progetto, nella responsabilità del costruire: è l’unico ruolo in cui le idee devono necessariamente farsi spazio reale. 


 

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